Il racconto ovvero l’arte di affabulare

Vorrei provare a definire il racconto. Non sembra difficile: ci si immagina un testo narrativo di poche cartelle, un qualcosa che per quantità è meno di un romanzo. Poi però si scopre che ci sono racconti lunghi più lunghi di un romanzo breve. Michael Kohlhaas (1810) di Heinrich von Kleist (1777-1811), ad esempio, oppure La morte a Venezia (1912) di Thomas Mann (1875-1955).

Ecco che la più immediata fra le definizioni possibili, quella fondata sulla quantità, cade subito. Ma è a questa che, per semplicità, ci si continua a riferire.

Che cos’è il racconto

Il critico Romano Luperini (1940) tratta del racconto nel saggio Il trauma e il caso. Sulla tipologia della novella moderna.

Di questo saggio mi interessano due momenti.

Il primo riguarda György Lukács (1885-1971). Luperini riporta la distinzione tra romanzo e racconto che Lukács opera nel saggio Solženicyn: «Una giornata di Ivan Denisovič» (1964). Il romanzo punta alla totalità di oggetti, relazioni umane e comportamenti nella società borghese. Il racconto, invece, punta alla rappresentazione del caso singolo. C’è una differenza di sguardo sulla vita, sulla realtà: da un lato il tutto, dall’altro una parte. Differenza discutibile.

Il secondo momento è a conclusione del saggio.

Luperini tira le somme della sua trattazione. Il racconto è una forma che cattura la modernità:

Nella varietà e mobilità di questo genere […], si apre allora una linea volta a riflettere e a rappresentare la frantumazione, la relatività e la casualità della vita nel moderno.
(L’autocoscienza del moderno, Liguori, 2006, p. 175.)

I due momenti sono opposti e legati.

Il racconto è una visione parziale, ma la modernità sfugge a una visione totalizzante, che è la grande ambizione del romanzo.

È tutto facilmente opinabile, ma non trovo, al momento, modo migliore per immaginare la forma racconto.

Flannery O’Connor: narrare una storia

Nel territorio del diavolo (1957-1969) di Flannery O’Connor (1925-1964) è una raccolta di saggi che ogni aspirante scrittore dovrebbe leggere e che molti aspiranti scrittori leggono. È un classico della scrittura creativa. Ogni editor dovrebbe averlo studiato e dovrebbe consigliarlo.

Nel saggio Natura e scopo della narrativa, O’Connor dice una cosa semplice che però andrebbe considerata un dogma:

Ma qualunque sia la forma narrativa usata, state scrivendo una storia, e in una storia qualcosa dovrà pur accadere. Una percezione non è una storia e non c’è sensibilità che basti a far di voi degli scrittori di racconti, se il dono per raccontare una storia non ce l’avete proprio.
(Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, edizione italiana a cura di Ottavio Fatica, minimum fax, 2003, p. 52.)

Alla fine: sempre si tratta di raccontare una storia.

Il racconto secondo O’Connor

Nel saggio Scrivere racconti, O’Connor definisce la forma racconto e in questa definizione risuona un po’ la Poetica di Aristotele:

Il racconto è un’azione drammatica compiuta, e in quelli più riusciti i personaggi si svelano mediante l’azione, e l’azione è a sua volta condotta mediante i personaggi: il significato che se ne trae deriva dall’esperienza nel suo complesso. Per quanto mi riguarda, preferisco definire il racconto un evento drammatico che coinvolge una persona in quanto persona, e persona in particolare, partecipe cioè e dell’umana condizione e di una specifica situazione umana. Un racconto implica sempre, in forma drammatica, il mistero della personalità.
(Nel territorio del diavolo, cit., p. 63.)

C’è qualcos’altro, però, di questo saggio, che mi interessa, un qualcosa che tocca il potere che hanno le narrazioni.

Tutti scrivono poesie, quasi tutti scrivono racconti

L’incipit del saggio sopra citato, Scrivere racconti, dice qualcosa di fondamentale: tutti, costantemente, nella vita, narriamo:

C’è chi dice che il racconto sia una delle forme letterarie più difficili, e io mi sono sempre chiesta il perché di questa convinzione, visto che a me pare uno dei modi più spontanei e fondamentali dell’espressione umana. Dopotutto, uno comincia ad ascoltare e raccontare storie sin da piccolo, senza trovarci niente di particolarmente complicato.
(Nel territorio del diavolo, cit., p. 61.)

Tutti noi narriamo, raccontiamo aneddoti, piccoli fatti, quanto ci è capitato. E cosa sono, questi, se non racconti minimi? Alcuni “raccontisti”, per qualche motivo, dicono cose tipo “scrivere un racconto è più difficile che scrivere un romanzo”. Di fatto non c’è forma di narrazione per cui abbiamo più naturale propensione, più confidenza. Non a caso tutti scrivono poesie, quasi tutti scrivono racconti. Ma a molti scrittori, si sa, piace complicare le cose.

C’è di più: molti di noi, raccontando, desiderano far provare, all’ascoltatore, piacere.

Raccontare è affabulare

Raccontare è affabulare. L’affabulazione, per definizione, è organizzazione di un intreccio, di una storia. Richiede l’uso inconsapevole di strategie narrative. E noi che tanto vogliamo piacere al prossimo, affiniamo costantemente le nostre strategie narrative/comunicative per raccontare sempre meglio, per affabulare sempre di più, per sedurre.

Narrare a voce, raccontare, scrivere, è una pratica di seduzione cui sempre ricorriamo per tenere legato a noi l’altro: dobbiamo tenere desta la sua attenzione, dobbiamo affascinarlo, dobbiamo affatturarlo, cose così.

Sicché il racconto, più che una forma di scrittura, è qualcosa che riguarda la nostra vita in comunità. Il tentativo di definizione del racconto si scontra e gioca con l’incalcolabile vastità della sua portata, con i suoi confini variabili, con l’irriducibilità alla pagina scritta, con la creazione di regole.

Esercizi di stile (1947 e 1969) di Raymond Queneau (1903-1976) può essere letto come un’operazione scientifica che disvela questo segreto. Poi, si sa, è una raccolta di variabili di un solo racconto.

Antonio Russo De Vivo © 2020

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