Quando muore un dio

“Quando muore un dio si è tentati dal pianto eterno. Ciò che lascia questa fine dell’infinito e dell’immortale, è una fonte di dolore e incomprensione. La morte non è per tutti. E chi sa di non morire, in punto di morte ride. Quel dio sapeva di non condividere le umane sorti, sapeva che le avrebbe ugualmente condivise. Da qui, nella sua inimmaginabile potenza soverchiante, il riso del dio ci coinvolge per sempre”.

Così disse il testimone. Così gli aveva detto il dio in morte. Il testimone rise, ebbro di vino e del ricordo di un dio.
L’uomo in ascolto non scosse il capo, né in un verso né in un altro. Solo, varcò la soglia nel modo stupido di certi uomini di varcare certe soglie: come oltrepassando un mondo, come immaginandone altri.
Fuori, tra luci ombre e soffi, pensò che sì, da lì in poi non avrebbe potuto darsi pace. La fine alle spalle e gli inizi ovunque. Un testimone, si sa, è un accidente insperato, uno sforzo cosmico che nessuno si augura.
L’uomo salvò il salvabile, costruì il possibile, non bastò. Passò all’impossibile e nemmeno bastò.
“Cosa ne è di me, ora?” Tornato sui suoi passi, chiese al testimone. Il testimone, si sa, serba il furore nell’attesa. Egli ha preso al dio il tempo – la durata del Suo racconto, la Sua vita –, gli ha reso l’oblio, l’ha tramutato in voce, in soffio. Il dio vivrà ancora, dimenticato, nel circolo ossessivo del racconto: il tempo del testimone.
“Sei una immensa statua”, il testimone disse.
“La statua di un dio”.
“Sì”.
“Cosa manca al dio?”, l’uomo chiese.
“Niente”.
“Eppure non ho capito”.
Il testimone rise, ancora, e offrì vitto e alloggio a quell’uomo.
Ogni giorno gli narrò le immotivate gesta degli dèi. Niente di necessario, tutto superfluo. E nel finire di ogni giorno poneva all’uomo la medesima domanda: “Hai capito? Hai capito l’essenziale?”
Ce ne volle, di tempo, prima che l’uomo rispondesse. “Ho capito, non serve”. E la notte mutò in giorno, il buio in luce; gli arcipelaghi di stelle sommersero.

Sotto il sole cadde, l’uomo. Sotto il sole fu marcio e cenere. Il testimone, presente, “ha capito,” disse, “ha capito ch’io solo ho il mistero. Vivere, solo vivere, raccontare, solo raccontare, credere, sempre credere: disperare dei giri infiniti dell’unico dono dagli dèi all’Uomo: la lingua”.
Il primo che passò, allora, lo guardò e rise, senza motivo. Il sole negli occhi strinse il testimone in pianto, una pioggia illuminata lo curvò. Al tuono, cadde.
Un testimone fece il suo tempo, nacque un nuovo dio.

Antonio Russo De Vivo © 2021

*****

Antonio Russo De Vivo. Editor freelance.
Dal 2014 al 2019 ha condiretto il lit-blog «CrapulaClub».
Dal 2020 dirige la rivista «micorrize».
Dal 2021 è redattore di «In allarmata radura».

Ha pubblicato articoli e racconti su lit-blog e riviste: «Fillide», «Flanerí», «L’Inquieto», «Nazione Indiana», «Pagine Inattuali», «Scrittori Precari» e «ZEST Letteratura Sostenibile». Un suo racconto è apparso sul sito web della rivista «Nuovi Argomenti».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *