#intervistesporche 5. Fabrizio Coscia: la morte del romanzo e della critica

La quinta intervista di #intervistesporche me l’ha concessa Fabrizio Coscia.

Fabrizio Coscia è critico (letterario e teatrale) e scrittore. Tra i suoi libri personalmente ricordo Soli eravamo (Ad est dell’equatore, 2014) e La bellezza che resta (Melville, 2017). L’ultimo risale ormai al 2021: Nella notte il cane (Editoriale Scientifica).

Dirige una collana della casa editrice Editoriale Scientifica: S-Confini.

Lo conosco, nella sua “militanza intellettuale”, come persona fedele alle proprie idee, incapace di abbassarsi al servilismo tipico del sistema letterario italiano, polemico ma amante del contraddittorio. Mi è capitato e mi capita di non condividere le sue posizioni, ma ne apprezzo l’eleganza e la coerenza.

Parlare con lui è stato importante per capire lo stato attuale della critica.

Il format di #intervistesporche prende il nome dalla mia passione per il punk e dalla mia volontà di interagire con alcune persone senza troppi filtri, in modo critico e politicamente scorretto. In questi anni in cui si vorrebbe ripulire tutto, dal linguaggio ai luoghi in cui viviamo (non odierò mai troppo il concetto di decoro urbano), è vivificante lasciare delle orme, dei segni, dis-ordinare, “sporcare” se necessario.

È possibile recuperare le altre interviste qui.

1. Che ruolo ha il critico letterario nel sistema editoriale e culturale? Che ruolo aveva prima?

Il compito del critico è sempre stato quello di separare l’ottimo dal buono e il buono dal cattivo, soprattutto quando quest’ultimo viene spacciato come valore. L’etimologia della parola «critica» viene del resto dal greco «krino», che significa proprio «separo».

Ma su che cosa si basa il criterio della separazione, e di conseguenza il giudizio? Come si stabilisce se un autore è valido oppure no? È qui che le cose cambiano, oggi. Il ruolo del critico si appanna, o forse si polverizza, perfino. Il problema della soggettività e della contestabilità del giudizio, che è sempre esistito, spesso rimosso, oggi è diventato infatti insormontabile, poiché nell’era della disintermediazione, con l’avvento dei social e il livellamento orizzontale dei rapporti, è venuto meno il principio dell’auctoritas, e dunque l’autorevolezza del gusto del critico, che deriva dall’ampiezza della sua cultura, dalle sue intuizioni estetiche, dalla sua esperienza, dalla sua capacità di connessioni, dal suo stile, non conta più nulla. Il critico non serve più. Distinguere, separare, stabilire la qualità di uno scrittore non interessa più a nessuno. Su Facebook ognuno scrive le sue recensioni dei libri che legge.

2. Trovo che la critica letteraria sia diventata pubblicità, sia ormai parte dei piani di comunicazione dei libri pubblicati. Tu che ne pensi? I critici sono liberi oppure schiavi?

Nella letteratura italiana degli ultimi decenni, nel passaggio tra il Novecento e il Duemila, si è verificato un mutamento epocale: la perdita di una relazione fra l’autentica esperienza della realtà e la consapevolezza della scrittura, intesa quest’ultima non solo in termini di stile, ma anche di complessità strutturale e visione del mondo. È quella che viene chiamata la postletteratura, che si basa sull’impostura, sulla posa, sul rifiuto dello stile letterario, e dunque della tradizione, spacciato per autenticità e immediatezza, sulla convenzionalità narrativa.

Tutto questo è successo nel processo di trasformazione (di mercificazione) della civiltà letteraria nella società dello spettacolo, che ha costretto il critico al silenzio o alla complicità, ovvero lo ha costretto a scegliere se restare escluso dal circo mediatico integrato oppure farsene imbonitore e promotore. Basta sfogliare i giornali: non c’è più critica, ma solo pubblicità, come dici bene tu.

3. Quali differenze interessanti ci sono, nel bene e nel male, tra critica teatrale e critica lettereria?

Il critico teatrale ha uno spazio di libertà più ampio, e questo perché non fa parte del mondo, del sistema che ha il compito di valutare, a differenza del critico letterario che è quasi sempre anche uno che pubblica, e dunque subisce i condizionamenti degli uffici stampa, degli editori, dei colleghi scrittori.

Il critico teatrale non è e non ambisce a essere un regista o un attore, non ha alcun legame con i teatri e le produzioni, e per questo può esercitare il suo giudizio senza alcun condizionamento, o almeno così dovrebbe essere. Questo è dimostrato anche dal fatto che le stroncature nelle recensioni teatrali continuano a esserci, mentre sono del tutto sparite dalle recensioni dei libri.

4. Ti esponi spesso, sui social e sui giornali, su tematiche sociali e politiche. Ti consideri un “intellettuale”? Che funzione può svolgere ancora il tanto disprezzato intellettuale?

Non ho alcuna remora a definirmi un intellettuale. Ma chi è l’intellettuale nell’epoca del crollo dell’auctoritas? Credo sia chi semina i dubbi, smonta le idee ricevute, smaschera i conformismi nei confronti di quella parte della società a cui si rivolge, quella parte cioè che gli è ideologicamente più vicina. È colui cioè che cerca di provocare il dissenso nel simile, non nel dissimile (che resterà impermeabile a qualsiasi critica). Ma questo lo avevano capito benissimo già Calvino, nel suo Barone rampante, e Pasolini, naturalmente, che non smetteva mai di insistere sulla necessità di stanare il vero fascismo all’interno e non fuori di sé, o Camus, che si definiva «di sinistra nonostante la sinistra». Ma tutto questo oggi, dove all’intellettuale si è sostituito l’influencer con i suoi follower, o il gestore delle fake news, è diventato difficile, se non addirittura impossibile, utopistico.

5. Cosa non ti piace del contesto letterario in cui agiamo? Cosa cambieresti?

Non mi piace il conformismo, non mi piacciono le consorterie, l’amichettismo, la fabbrica dei premi letterari. Non mi piace il modo in cui si mortificano le voci più autentiche, più originali del panorama letterario, costringendole all’emarginazione o al silenzio. Cambierei tutto questo, se fosse possibile.

6. Da scrittore e curatore di una collana editoriale (S-Confini di Editoriale Scientifica), qual è la tua idea di letteratura? Cosa si può/deve scrivere oggi, e cosa invece non si può più?

Quando tre anni fa Alfredo De Domincis, l’editore di Editoriale Scientifica, mi ha proposto di creare e dirigere una collana di narrativa, la mia idea è stata quella di aprire un piccolo spazio di libertà che potesse ospitare gli scrittori e le scrittrici che più mi piacciono o stimo, con cui cioè condivido un’idea di letteratura diversa, lontana dal mainstream, una letteratura che avesse come unica condizione quella del rifiuto del romanzo, della fiction.

Non che abbia qualcosa contro le storie, le storie mi piacciono, ma preferisco seguirle nelle serie-tv, dove si sono raggiunti livelli a volte altissimi. Le seguo appassionandomi, ciò che non succede con i romanzi che leggo. Nella letteratura mi interessa di più ciò che tende a distruggere la narrazione, in qualsiasi modo lo faccia: con il frammento diaristico, l’ibrido, il personal essay, il taccuino di viaggio, il reportage letterario.

È questa mia idea di letteratura che ho cercato di portare dentro la collana. In tre anni abbiamo pubblicato nove libri, stiamo per pubblicare il decimo. Ci sono autori come Renzo Paris, Luca Doninelli, Francesco Permunian. Ci sono voci nuove e interessanti come quella di Rossella Pretto. Ci saranno presto altri scrittori che stimo molto, che continuano a sperimentare, che cercano una qualche verità attraverso la scrittura, come Andrea Caterini, Davide Morganti, Carmen Pellegrino. Abbiamo in programma titoli per i prossimi due anni. E questo per me significa che la scommessa, così azzardata, è stata già vinta.

7. L’autofiction e la no fiction, che hanno avuto un picco di produzione dai tempi di Gomorra di Saviano, restano le forme di scrittura con presunzione autoriale/letteraria che hanno più mercato e diffusione (vedi la vincitrice dell’ultima edizione del premio Strega [Ada D’Adamo], o il discreto successo dell’ultimo romanzo di Antonio Franchini).

Perché si ha tanta voglia e facilità di raccontarsi, di esporre parti della propria vita? A che punto è la fiction in Italia?

Il modernismo ha messo la parola fine a un certo tipo di romanzo, che invece viene ancora tenuto in vita artificialmente per motivi commerciali. Parlo del romanzo post-letterario. Quel patto tra lettore e scrittore, quella sospensione della credulità che era alla base del romanzo tradizionale non è più possibile oggi. La letteratura vera ha per questo «fame di realtà», non di fiction.

Una parte dell’editoria, nonostante il permanere della dittatura del romanzo tradizionale, ha captato questo cambiamento, che è avvenuto anche nei lettori, e dunque sta cercando di sfruttarlo con la nuova moda dell’auto-fiction, che in effetti nasce come reazione al romanzo, ma ormai è usata come fiction mascherata, un genere che risponde di fatto alle stesse regole e convenzioni del romanzo tradizionale. Ma non basta dire «io» e raccontare i fatti propri per demolire il romanzo postletterario.

8. Quali consigli di scrittura daresti a chi desidera pubblicare? Cosa sconsiglieresti?

Consigli: leggere leggere leggere. E soprattutto non trascurare la letteratura italiana del Novecento, immergersi nella sua meravigliosa lingua. Il paradosso di molti scrittori o aspiranti tali è che leggono molti più libri stranieri in traduzione che autori italiani. Leggono, si nutrono cioè di traduttese più che di italiano letterario. E questo da un lato è positivo perché aiuta ad allargare l’orizzonte formativo, ma dall’altro è pericoloso poiché ostacola la nascita di una propria lingua secondo me.

Sconsigli: proporre la pubblicazione appena finito di scrivere. I testi che scriviamo vanno lasciati sedimentare a lungo, perfino tenuti nel cassetto per anni. La fretta di pubblicare, umanissima, va sempre evitata. Bisogna proporre solo quando siamo convinti di aver scritto il libro più bello del mondo.

9. Da critico letterario: quali autori italiani viventi consigli di leggere oggi? E quali classici ritieni più attuali?

Di autori italiani viventi consiglio uno degli ultimi che ho letto: Sandro Campani. Non lo conoscevo, ma mi sono bastate poche pagine del suo Alzarsi presto per capire di trovarmi di fronte a uno scrittore autentico, di quelli rari, che ancora usano la lingua come un bulino, per ricavarne qualcosa di prezioso, qualcosa che è, allo stesso tempo, il risultato di una voce personale e di una voce collettiva, quella cioè di una tradizione letteraria, come se l’una contenesse l’altra nutrendosene senza perdere originalità e naturalezza.

Per quanto riguarda invece i classici che ritengo più attuali, torno sempre alla Bibbia ebraica, perché lì dentro c’è tutto: il passato, il presente e il futuro.

10. Un aspirante scrittore deve più studiare o più vivere?

Ti rispondo con un aneddoto personale. Conobbi Agostino Lombardo, il grande anglista, nel 1997, a un convegno ad Aosta. Io avevo trent’anni, all’epoca, e gli parlai, durante una cena, delle mie ambizioni di scrittore. Lui, inaspettatamente, mi chiese se avessi qualcosa da fargli leggere. Così qualche tempo dopo gli inviai dei miei raccontini inediti. Quando li ebbe letti mi invitò da lui a «La Sapienza». Mi accolse nel suo studio e venne subito al dunque. Mi disse che dal punto di vista tecnico non avevo niente da imparare, ma che ai miei racconti mancava qualcosa. «Che cosa?» gli chiesi. «La vita» mi rispose. E poi aggiunse, citando il suo amato Henry James: «E l’arte raccoglie sempre il suo materiale dal giardino della vita». È stata la più importante lezione di scrittura che abbia mai ricevuto. La tecnica senza l’esperienza della vita non serve a nulla. Certo è vero anche il contrario, perché nessuna vita può essere restituita senza gli strumenti adatti per distillarla in uno stile, in una lingua. Ma una volta forgiata la tecnica, è dall’esperienza della vita che solo può nascere un’opera autentica.

Antonio Russo De Vivo © 2024

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