Il giorno in cui Carla perse il tempo, faceva caldo, io soffrivo, tutti soffrivano, e quell’immenso calore stagionale del Luogo anticipava ogni anno la fine della nostra Storia.
Nel Luogo non si faceva che parlare delle disastrose conseguenze dovute all’incidenza dei fattori antropici. Ci sentivamo vicini alla Fine, anche se probabilmente non l’avremmo vista noi, anche se ci toccava sopravvivere fino alla morte, a quell’idea di Fine.
In questo contesto si innestò l’evento di Carla.
Quella notte Carla mi aveva mandato due vocali, distanti tre ore l’uno dall’altro, in cui parlava e sembrava che il discorso fluisse dall’uno all’altro come troncato da un’interruzione casuale, solo che quell’interruzione era stata, appunto, di ben tre ore. Ci pensavo e la ascoltavo, e lei mi comunicava la sua angoscia per lo spaesamento improvviso. Piangeva, provava ansia perché per lei il tempo non esisteva più, cercava modi diversi ma ugualmente confusi per descrivermi l’evento. Mi toccò uscire di casa alle sette di mattina, troppo presto per me, ma non potevo ignorare la cosa, Carla era stata mia amica, poi era sparita oppure ero sparito io — entrambi possiamo definirci personalità “evitanti” —, dopodiché, trascorsi mesi di assenza di interazioni tra noi, mi stava chiedendo aiuto.
Nel viaggio in macchina di circa venti minuti, ebbi modo di pensare ai possibili motivi per cui Carla si ritrovava in quel suo inedito e dolorosissimo evento. Lei, per quanto l’abbia vista di rado — entrambi possiamo descriverci come soggetti poco propensi alla socialità e ai suoi riti, pur trovandoci allora in quella età in cui non eravamo né giovani né vecchi e dunque con una storia personale abbastanza lunga da includere una serie significativa di incontri e rapporti con gli altri: siamo asociali? odiamo le persone? bastiamo a noi stessi? Trattasi di questioni noiose legate alle ossessioni collettive circa la sanità del rapporto tra io e Luogo —, in fondo mi risultava in qualche modo intima, forse per quella che i più potrebbero definire romanticamente “affinità ellettiva”, o, secondo certe mode a me indigeste, “connessione”, e su cui io invece avrei sospeso il giudizio perché ero e sono pratico, e trovo in generale che l’inspiegabile vada interpretato solo in presenza di variabili in quantità adatta a formulare ipotesi plausibili. In questo caso specifico c’erano due persone di sesso opposto che per sette anni avevano comunicato in modo discontinuo e profondo, si erano abbastanza capiti pur essendo concordi sull’impossibilità di comunicare pienamente e felicemente che sempre grava i rapporti tra le persone, pur essendo coscienti di non poter mai essere allineati, pur descrivendo gli incontri quali intersezioni estemporanee tra le linee della vita.
Intanto giunsi a casa sua.
Carla mi aprì e corse subito a letto. Era in t-shirt e slip, magra, tanto magra, non diversa, nell’aspetto e nelle forme, dall’ultimo incontro, distante tre anni. La raggiunsi e lei piangeva faccia sul cuscino. Le poggiai una mano sulla spalla per infonderle calore umano, intanto mi guardavo intorno e tutto mi si palesava in una quasi totale nudità. Le pareti erano bianche e vuote, mobili e comodini e anche il tavolo in cucina erano vuoti come fossero nuovi, come se lì non esistesse nessuno.
Chiesi a Carla dove fosse finita la vita, in quella casa, e lei spostò l’attenzione sul tempo. Piangeva, e mi diceva che da un certo punto non poteva fare più niente.
Io capivo cosa intendeva, e doveva essere quello il motivo per cui mi aveva mandato, la notte, quei due messaggi vocali. Io potevo capire perché lei mi aveva sempre stimato come una persona capace di capire le cose astratte. Strano per me, ritenendomi un individuo teso a affrontare il lato pratico dell’esistenza e a ignorarne il lato enigmatico, che pure so esserci.
Dunque al momento immaginai una vita senza tempo e effettivamente era come diceva Carla: tutto le era precluso, perché tutto avviene nel tempo. Eppure Carla poteva agire, ma il problema che indirettanente sollevava era l’inattendibilità di qualsiasi azione nell’assenza di coordinate temporali. Cosa poteva fare, dal momento che non poteva coordinare l’atto al momento?
Mentre ci pensavo, Carla, sempre piangendo sul cuscino, disse una cosa tanto densa che solo nelle sue condizioni forse poteva onestamente dirsi:
“Sono libera.”
Io dissi di sì, che ora era libera, ma avevo ben chiaro che questa condizione tanto banalizzata dagli abitanti del Luogo — per tutti era una aspirazione positiva, un obiettivo straordinario irraggiungibile: la tanto agognata libertà… — doveva trattarsi di uno stato di invivibilità. Capii lì che la libertà è la resezione traumatica del legame col Tempo, che dopo non c’è niente perché il dopo, come tutte le coordinate che fanno da superLuogo alle vite, non esiste più. (Il superLuogo è quella corazza invisibile intorno ai corpi che, tramite contatto [fisico, visivo, uditivo, ecc.], permette costantemente di praticare la vita.) Ora, in assenza di Tempo, era come se Carla fosse priva del suo superLuogo. Era libera, ma questa libertà equivaleva a un processo di smarrimento in fieri.
Carla in quel momento esisteva ancora — un paradosso, data la peculiarità del suo stato — e era destinata a raggiungere il grande Vuoto.
Provai a calmarla, ovvio, ma la sua disperazione si faceva sempre più straziante. Provai a distrarla chiedendole di descrivermi ciò che stava vivendo, ma lei, giustamente, si limitava a ripetere di essere libera.
Io mi sforzai di mantenere la calma nonostante le credessi. La casa di Carla era un appartamento in città, eppure lì, accanto a lei, mi sentivo come in un altro luogo, un luogo che doveva essere il nuovo luogo di Carla, in cui esistevano solo il contenitore-casa e poi lei e infine io che ci ero entrato.
Ogni tanto controllavo il mio smartphone per appurare che il tempo passasse e sì, non ravvisavo anomalie.
Mi chiesi cosa ne sarebbe stato di Carla. Di fatto per lei doveva essere decaduta la variabile “mutazione”. Il suo corpo si poteva presumere non subisse più variazioni; ma la sua coscienza? Come si fa a essere Io in assenza di superLuogo?
Alle otto e trenta, dopo appena un’ora, Carla non riusciva a parlarmi. Era davanti a me, mi guardava, e io la fissavo per capire: mi toccava testimoniare a me stesso che Carla velocemente si allontanava. In breve Carla non ci fu più, sussisteva un corpo con le sue funzioni, un corpo che chiuse gli occhi e restò steso a letto. Respirava, ma non esisteva.
Io ero dispiaciuto, mi dispiaceva di essere stato inutile, incapace di aiutarla, incapace di fare qualcosa per Carla. Provai a chiamare un’ambulanza ma non c’era linea a casa di Carla, provai a scrivere a qualcuno ma non c’era rete a casa di Carla. Non restava che lasciarla sola, uscire per provvedere quanto prima a attivare un intervento medico.
Mi alzai dal letto, carezzai Carla dalla nuca muovendo la mano tra i capelli fino alle spalle e alla schiena, e per qualche motivo aderire dolcemente a quella linea curva mi diede i brividi. Sospirai e andai.
Aperta la porta, però, mi trovai al cospetto del grande Vuoto.
Antonio Russo De Vivo © 2024
* La foto usata è di Cristina Eléni Kontoglou.